Horror Movies: 10 cult per un secolo


Buonasera e benvenuti, Cultisti, Indagatori dell’Incubo, Creepers e tutti voi amanti del macabro!

Voglio proporvi dieci film rappresentativi di un secolo di cinema, dagli anni Venti del Novecento al 2019. Nessuna classifica, meglio procedere in ordine cronologico. Per ogni decennio vi citerò film e sottogenere horror di quegli anni, ma alla fine sceglierò un solo film… con una sola eccezione, dal momento che si tratta di due opere che ritengo fortemente legate tra loro.

Partiamo!

1920s

Quando e dove nasce l’horror? Non in Germania, e non nel XX secolo. Il primo cortometraggio horror, infatti, è opera di George Méliès, Le manoir du diable, prodotto nel 1896. Allora perché qualcuno avrà pensato alla Germania? Nel 1920, esce un titolo che credo abbiate sentito nominare: Il gabinetto del dottor Caligari, di Robert Wiene. Nei due decenni tra le opere citate sono usciti altri lungo e cortometraggi degni di nota, ma le atmosfere del Dottor Caligari sono una novità, oltre che simbolo del cinema espressionista tedesco. Ricordate le “geometrie non euclidee” di Lovecraft? Eccole qui in quegli stessi anni: giochi di luce e ombra, bianco e nero, una differenza netta tra buono e cattivo con l’uso di scenografie disseminate di diagonali, angoli, stanze impossibili.

Ma non è di questo film che voglio parlarvi, e nemmeno di un altro film muto di cui, stavolta, sono certissima abbiate udito almeno il titolo: Nosferatu, di Friedrich Wilhelm Murnau del 1922. Tuttavia, il caro Nosferatu rappresenta un cult tale da non poter andare avanti senza nominarlo. Chi ha visionato questa pellicola certamente avrà notato le somiglianze con il romanzo di Bram Stoker, ma c’è un motivo perché lì avevamo Dracula e qui il Conte Orlok: diritti d’autore. La storia dunque è pressoché la medesima, a eccezione di alcune piccole differenze (tanto che gli eredi di Stoker non la presero comunque bene), perciò sorvolerò sulla trama per concentrarmi su un particolare che accomuna i due film citati: la caratterizzazione, a livello visivo, del “mostro”, che si tratti di Nosferatu o di Cesare. Mentre il sonnambulo di Wiene è ricordato per le nere occhiaie sopra il trucco pallidissimo del viso (e in seguito lo stesso attore, Conrad Veidt, verrà ricordato anche per il sorriso de L’uomo che ride, ispirazione per Joker), Max Schreck subisce un cambiamento radicale, venendo tuttora ricordato per la testa calva e bitorzoluta, le orecchie appuntite e due canini che hanno molto da invidiare alla versione di Gary Oldman.

Arriviamo però finalmente al film che ho scelto per due motivi. Uno ve lo svelerò subito: l’ho visto in un teatro con la musica dal vivo. Qualcosa di simile è avvenuto anche per Nosferatu, ma in un ambiente più informale, mentre la solennità dell’altra visione mi ha restituito la sensazione di essere tornata indietro di cento anni. Sto parlando de Il Fantasma dell’Opera, lungometraggio muto del 1925 diretto da Rupert Julian e tratto dal romanzo di Gaston Leroux. Dimentichiamo ancora una volta la trama e il fatto che nessun lampadario ci sia caduto addosso in teatro (un disastro a livello architettonico e umano, ma volete mettere?), e parliamo invece di lui, Lon Chaney. Il suo soprannome? “L’uomo dalle mille facce”. Altro che Disney: Chaney nel ruolo di Quasimodo, nel 1923, doveva essere veramente come nella mente di Hugo, ma è quando Christine toglie la maschera al Fantasma rivelando il vero volto di Erik che possiamo comprendere il suo sgomento, la paura, il desiderio di fuggire via. Non serve la voce, non serve una musica da jumpscare: basta il trucco sul viso, che Chaney ideò e si mise da solo.

C’è però un secondo motivo per cui ho scelto questo film, e riguarda un filone che avrà molta fortuna a partire, in realtà, dal decennio successivo, e di cui quindi vi parlerò… adesso!

1930s

L’Universal Cinematic Monsters nasce con Lon Chaney, letteralmente: i primi due film del franchise sono Il gobbo di Notre Dame e Il Fantasma dell’Opera; eppure, è più il make up dell’attore a inserirli nel genere horror rispetto ai film. In ogni caso, concentriamoci un secondo su questo “universo” per affermare una verità incontestabile: il primo franchise cinematografico della storia è rappresentato dall’horror, un genere che ancora oggi molti definiscono di serie B. I mostri presenti tra gli anni Venti e Cinquanta (tornati poi in auge con diversi tentativi di remake contemporanei più o meno riusciti) sono, oltre ai già citati Quasimodo ed Erik, Dracula, la creatura di Frankenstein e la di lui moglie, il Mostro della Laguna Nera, la Mummia, l’Uomo Invisibile e l’Uomo Lupo – più alcune “comparse” che non riscuoteranno il successo dei predecessori.

Ci sono poi altri “mostri”. Nello specifico, ciò che un tempo erano definiti come tali, ed effettivamente Quasimodo potrebbe rientrare proprio in quest’ultima categoria: non creature soprannaturali con poteri incontrastabili, bensì freaks. Andiamo quindi a parlare di Freaks, film del 1932 per la regia di Tod Browning. Freaks è un film anomalo, in particolar modo per gli spettatori del tempo: non venne ben accolto, anche la critica lo stroncò, e tutto perché portò sullo schermo coloro che, all’epoca, venivano definiti “fenomeni da baraccone”. Diamo una breve occhiata alla trama, ispirata a Spurs, romanzo di Tod Robbins. Siamo all’interno di un circo, di cui fanno parte sia le figure ancora oggi presenti (come acrobati e pagliacci), sia coloro che attraevano pubblico esclusivamente per ciò che erano definite “mostruosità”. Per rappresentare le gemelle siamesi, la donna barbuta e “l’uomo torso” furono scelti attori che incarnavano tali caratteristiche, tanto da essere accreditati come “se stessi”. Questo fu un grosso esempio di progresso che in seguito, nel cinema, non si vedrà per parecchio tempo. Ad ogni modo, la pellicola si sviluppa in un’oretta intorno alla figura di Hans, che abbandona la fidanzata Frida, affetta come lui da nanismo, per la bella acrobata Cleopatra, in realtà interessata soltanto ai suoi soldi.

Cosa c’è qui di “horror”? C’è prima di tutto il concetto di “freak” nello stesso periodo in cui nasceva l’Universal Cinematic Monsters, ma c’è anche il finale – in una versione in parte censurato – che porta un lieto fine per Hans e al contempo la “punizione” per Cleopatra. Una punizione che, insieme ad altri elementi, verrà ripresa da American Horror Story: Freak Show, una delle stagioni più riuscite della serie di Ryan Murphy e Brad Falchuck. Non solo: gli appassionati di Dylan Dog come me ricorderanno, sebbene per trame differenti, le tematiche del capolavoro di Johnny Freak (Marcheselli, Sclavi e Venturi) e de Il cimitero dei freaks (Barbato e Mari).

1940s

Conoscete il Codice Hays? Se avete studiato cinema, la risposta è: sì, senza ombra di dubbio. E questo perché ha interessato ogni genere cinematografico. In parole povere, Hollywood non aveva fatto in tempo a nascere che già imponeva dei limiti: niente nudità, niente affronti alla religione, niente di tutto ciò che potesse (cito Wikipedia perché trovo la definizione calzante) “abbassare gli standard morali degli spettatori”. Nell’America del post Proibizionismo, potevamo aspettarci altro? Va dunque da sé che gli horror, per loro natura, andavano contro una serie di precetti base del Codice Hays, tra i quali: la messa in scena di omicidi e altre azioni violente; il linguaggio offensivo; la vita sessuale dei personaggi (anche la sola rappresentazione esplicita dell’adulterio). E via dicendo. Cosa si può mettere in scena, quindi, se sangue e violenza sono vietate?

Per fortuna, il genere horror può vantare tante situazioni “spaventose”, basti pensare alla componente psicologica. L’horror, soprattutto in questi primi decenni, si accosta molto al thriller, a volte aggiungendo una caratteristica soprannaturale, a volte no, ma in ogni caso provocando nello spettatore ansie e paranoie: cosa stiamo vedendo? ce lo stiamo solo immaginando?

Un esempio è dato dal termine, ora ampliamente in uso, di “gaslight”, una sorta di manipolazione mentale che viene esplicata dall’omonimo film (in Italia noto come Angoscia) del 1944, preceduto da un’opera teatrale e da un ulteriore suo adattamento. Stiamo veramente vedendo la realtà o è solo una visione, una falsa percezione causata da droga, malattia mentale o altre cause? Con questa breve introduzione, vi sarà già venuta in mente una serie di pellicole recenti, ma vorrei indirizzarvi verso un film del 1942 diretto da Jacques Tourneur: Il bacio della pantera. Qui non abbiamo episodi di gaslighting, ma la nascita nello spettatore di un dubbio: la protagonista soffre di una forma di delirio o c’è del soprannaturale di mezzo? Ve lo spiego meglio: la serba Irena è convinta di discendere da una popolazione che si era unita con bestie dall’aspetto felino, e dunque di non potersi lasciare andare alle emozioni per timore di trasformarsi essa stessa in una “bestia”. Nel corso del film si susseguono degli eventi che potrebbero o no confermare la sua tesi, e a dirla tutta al termine della visione non si è ancora certi sulla veridicità dei timori di Irena. Sì, una data scena sembrerebbe dare adito a una delle due versioni, ma che la forma bestiale sia solo una metafora? Ecco come aggirare il Codice Hays alla perfezione.

Vi indirizzo ancora una volta verso Dylan Dog: Il sogno della tigre, di Mignacco e Piccatto.

1950s

Cosa temeva l’America negli anni Cinquanta? Il diverso, o ancora meglio ciò che avrebbe potuto cambiare l’ordine delle cose. In altre parole: il comunismo. Alcuni film girati in questo periodo sono stati interpretati partendo da tale presupposto, nonostante i loro ideatori sostenessero che no, non c’entrava niente il comunismo. È il caso di Don Siegel, che ha dovuto giustificarsi in merito a L’invasione degli ultracorpi del 1956. Pensiamo però anche a La cosa da un altro mondo (1951, più nota per il remake di John Carpenter del 1982): qualcosa è in agguato nell’ombra, qualcosa pronto a prendere il nostro aspetto e a sostituirci per proliferare.

Comunismo o meno, è ovvio che siamo alle soglie dell’horror fantascientifico, ed entrambi i film lo introducono alla perfezione, facendo chiedere allo spettatore sia quale sia il vero “io”, la forma originale, sia se esso possa sopravvivere al termine della pellicola – e, in senso più ampio, se la Terra stessa riuscirà a fronteggiare la minaccia aliena.

Però non è di questo che voglio parlarvi. Lasciamo perdere la fantascienza e concentriamoci su un attore, come per gli esempi del cinema muto. Concentriamoci su chi ha fatto la storia dell’horror. Concentriamoci su Vincent Price.

Ho scoperto questo attore da poco tempo e ho immediatamente imparato ad amarlo. Ha un’espressività e una capacità attoriale che coinvolgono lo spettatore pur con un solo cameo – la sua ultima apparizione, per intenderci, è stata quella del creatore in Edward Mani di Forbici, e il corto Vincent di Tim Burton è ispirato proprio a lui.

Chi è Vincent Price? Ve lo racconto in una manciata di film: Vertigine (1944), Il mostro che uccide (1959), La maschera di cera (1953) e nei decenni successivi I racconti del terrore (1962), Il grande inquisitore (1968) e una serie di film diretti da Roger Corman e ispirati ai racconti di Edgar Allan Poe (I vivi e i morti, Il pozzo e il pendolo, La maschera della Morte Rossa).

Se non avete visto questi film, vi basti sapere che in Shock (1946) interpretava uno psichiatra che aveva in cura una donna finita sotto shock proprio perché, per puro caso, aveva assistito al suo uxoricidio.

Ora vi parlo però di un film sul finire del decennio, nello specifico del 1959, diretto da William Castle. La casa dei fantasmi, proprio come Il bacio della pantera, pone un dubbio allo spettatore: ci sono i fantasmi? La villa è maledetta? Partiamo dall’inizio, agganciandoci inoltre alla precedente top horror. Vincent Price interpreta un eccentrico riccone che, insieme alla moglie, invita alcune persone sconosciute (ma bisognose di denaro, di notorietà o risposte) a passare la notte in una magione; chi rimarrà fino all’alba vincerà diecimila dollari. Inutile specificare che, subito dopo mezzanotte, inizieranno gli omicidi. Un gigantesco encomio va a Carol Ohmart, interprete della “signora Price”, che con il suo coprotagonista ha un’intesa pazzesca.

Cosa aggiungere senza fare spoiler? Che dovete guardare almeno un film con Vincent Price nella vita.

1960s

La seconda metà del secolo è la culla d’oro del genere horror, che possiamo gustare in qualsiasi salsa – a partire da un thriller che presenta la scena d’omicidio più famosa del cinema. Una sola parola: doccia. Stiamo parlando ovviamente di Psyco di Alfred Hitchcock, che apre il decennio con un plot twist del tutto inaspettato, ossia la morte della protagonista a metà film – non tanto per il ruolo del personaggio ucciso, quanto per la notorietà della sua attrice. La fama di Janet Leigh, infatti, era parte della presenza del pubblico in sala, e togliere di mezzo il suo personaggio lo avrà destabilizzato (gli spettatori lo avrebbero comunque saputo, se avessero letto l’omonimo libro di Robert Bloch, ma Hitchcock aveva già provveduto a comprarne tutte le copie per evitare spoiler). L’elemento horror, ad ogni modo, è rappresentato dal colpo di scena del finale – che già conoscerete, ma rispetto la politica “no spoiler” di Hitchcock e almeno questo lo tengo per me. Psyco è un cult, eppure all’epoca non solo non fu debitamente apprezzato, ma la stessa Paramount ebbe grossi dubbi in merito al successo della pellicola.

Il proliferare di serial killer negli Stati Uniti darà il via ad altri horror dedicati a tali figure, però non saranno gli unici mostri di questi anni. Pensiamo, infatti, al film per eccellenza sugli zombie: La notte dei morti viventi di George Romero del 1968. Sì, ovviamente esiste la versione di Dylan Dog, che è addirittura il numero 1 dell’ottobre 1986, scritto da Tiziano Sclavi, illustrato da Angelo Stano e uscito con il titolo de L’alba dei morti viventi. Siamo in Pennsylvania e il film inizia in media res: mentre ne L’invasione degli ultracorpi la citata invasione era già in corso, ma il protagonista e lo spettatore avevano bisogno di diverse scene per comprenderlo, la povera Barbra e l’ancor più povero fratello Johnny si ritrovano nel giro di qualche minuto ad affrontare un morto vivente in un cimitero.

Altre versioni soprannaturali dell’horror conquistano il cinema in quegli anni, dall’Anticristo di Rosemary’s Baby (1968) ai fantasmi che avrebbero in seguito ispirato le due stagioni di The Haunting di Mike Flanagan, Gli invasati (1963, dal romanzo The Haunting of Hill House di Shirley Jackson) e Suspense (1961, dal racconto Il giro di vite di Henry James).

Il film che ho scelto per questo decennio, però, è meno famoso dei precedenti e noto soprattutto per il remake che ne farà John Carpenter nel 1995: sto parlando de Il villaggio dei dannati del 1960 per la regia di Wolf Rilla. Se non la vita dei serial killer, abbiamo visto che sono i romanzi a ispirare i registi, e così è anche per questo film, tratto da I figli dell’invasione di John Wyndham. Perché ho scelto proprio questo? Per l’inquietudine trasmessa, per l’uncanny. Il villaggio inglese di Midwich un giorno si addormenta, e tutti coloro che provano a entrarvi subiscono la stessa sorte, eppure la pellicola non prosegue su questo elemento; infatti, dopo alcune ore gli abitanti si svegliano senza aver subito evidenti cambiamenti… evidenti, appunto, perché entro qualche settimana tutte le donne fertili scopriranno di essere incinte, perfino le ragazze vergini. La storia riprende anni dopo, seguendo le vicende di questi strani bambini dai capelli bianchi e gli occhi luminosi, apparentemente privi di emozioni, che a differenza di altre parti del mondo, per paura di ciò che avrebbero potuto rappresentare, non sono stati uccisi alla nascita . Di più non vi racconto, ma… bambini inquietanti. Serve davvero aggiungere altro?

1970s

Eccolo qua, il decennio più complicato, gli anni dei film cult, della nascita dello slasher, del successo di Dario Argento. Come si fa a scegliere? Si può, e la scelta non può che essere il film horror per eccellenza, quello di cui avevo sentito parlare già da bambina, vent’anni dopo la sua uscita nei cinema. Andiamo con ordine, però, e teniamolo per ultimo.

Finora ci siamo concentrati su pellicole statunitensi, con rare eccezioni, soprattutto perché da lì provengono e proverranno i film più noti, ma il cinema horror ha proliferato in ogni parte del mondo, e a fare scuola sono stati anche i maestri italiani. Al punto che, per alcuni critici, è da ricercare nel nostro Paese la genesi dello slasher: siamo nel 1971 e Mario Bava produce Reazione a catena, ma non è stato questo il film più riuscito, a mio parere. Negli anni Sessanta, infatti, Bava aveva realizzato La maschera del demonio e I tre volti della paura (quest’ultimo con la partecipazione di Boris Karloff, il mostro di Frankenstein del 1931), e onestamente propenderei per considerare piuttosto Sei donne per l’assassino (1964) il vero padre dello slasher, sebbene siamo nel pieno del giallo all’italiana.

Gli anni Settanta sono invece dominio di Luigi Fulci e di Dario Argento: mentre il primo si è fin da subito concentrato sullo shock visivo, il secondo ha da sempre oscillato tra mistero e sangue, indagini e soprannaturale. Sono due i film cardine di Argento: Profondo Rosso (1975) e Suspiria (1977).

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, riprendiamo il discorso dello slasher, il genere cinematografico più femminista della storia. Perché? Basti pensare alle scream queens, le sopravvissute (a volte per un intero franchise), le donne che riescono a combattere la loro nemesi maschile senza l’aiuto di un uomo; all’inizio sono vergini, perché devono rispondere alla “moralità” dell’epoca, ma pian piano conquistano altre libertà – in altre parole, avere un rapporto sessuale non le rende più “vittime promiscue”. Torneremo in futuro su questo tema, per ora basti citare sì le sopravvissute di Non aprite quella porta (1974) e Halloween (1978), ma anche Ripley di Alien (1979), e cosa dire di Carrie (1976)? Ed è proprio Carrie che, esulando dallo slasher, ci conduce verso altre donne protagoniste degli anni Settanta, e verso il film che ho scelto per questo decennio.

Lo conoscete: L’esorcista (1973), per la regia di William Friedkin. Perfino chi non lo ha visto ne ha sentito parlare, e probabilmente ha presente il volto deturpato di Linda Blair – e anche il vero vomito che colpì il malcapitato prete. Ci sono tutti gli elementi del cinema horror per come lo intendiamo nell’immaginario collettivo: una tavola Ouija, una possessione, la statuina di un demone, una bambina spaventosa, una madre spaventata, un esorcismo. C’è la vita di madre e figlia prima e durante il disastro, e c’è la lenta corruzione del corpo di Regan. C’è perfino il contrasto tra l’ateismo di Chris MacNeil e la fede dei due preti.

1980s

Prosegue l’ondata di franchise slasher, che cominciano a presentare piccole differenze tra loro. Venerdì 13 (1980, dodici film) narra le vicende di un gruppo di responsabili di Camp Crystal Lake che si trovano a perire in modi brutali come vendetta per un incidente avvenuto ventitré anni prima al piccolo Jason Voorhees. Perché il ragazzino affogò? Perché coloro che avrebbero dovuto sorvegliarlo si stavano “divertendo”: il sesso fa male, per tornare alla pletora di scream queens vergini di cui sopra.

Wes Craven darà al suo slasher una caratteristica nuova, ossia la componente soprannaturale. Parliamo di Nightmare (1984, nove film), il cui villain è l’infanticida Freddy Kruger, deciso a proseguire, attraverso gli incubi, la conta delle sue vittime. Anche Hellraiser (1987, undici film) potrebbe essere considerato uno slasher; quel che è certo è che la saga di Clive Barker non può evitare di essere citata tra i cult dell’orrore.

Gli anni Ottanta sono anche gli anni delle commedie horror e delle parodie, film in cui l’elemento grottesco viene portato all’esagerazione. Sono gli anni de La casa (1981, cinque film e una serie televisiva) di Sam Raimi, con un inedito sopravvissuto maschile: Ash Williams, interpretato da Bruce Campbell.

Parliamo poi di un film che esula da slasher e commedie, e che non segue il corso dell’horror di quei decenni, bensì il metodo di lavoro del suo regista, noto per adattare romanzi di generi diversi in modo che la sua firma risulti più che evidente. Siamo arrivati a Stanley Kubrick e alla sua versione di Shining (1980), che si discosta parecchio dall’omonimo libro di Stephen King, tanto che allo scrittore il film non è mai andato a genio. Shining narra dell’inverno trascorso dalla famiglia Torrance nel disabitato Overlook Hotel in qualità di guardiani; Jack (Jack Nicholson) vorrebbe approfittarne per scrivere il suo libro, ma non sarà così facile. L’isolamento porta nervosismo e ansia, e perfino lo spettatore, grazie all’uso della steadycam, riesce a provare tali sensazioni, aggravate dalla presenza di due innocue gemelline vestite di azzurro che sarebbero diventate l’incubo di molti bambini (il mio sicuramente); a dirla tutta, l’esaurimento che vediamo nel film è stato parte della sua realizzazione, dal momento che Kubrick anelava la perfezione, portando gli attori a giornate ininterrotte di lavoro sulla stessa scena e la povera Shirley Duvall al limite della pazzia. Una curiosità poco nota: in Harry Potter e il Calice di Fuoco (2005), il labirinto è stato cambiato rispetto al romanzo, in modo che fosse simile a quello del finale di Shining.

1990s

Ah, gli anni Novanta: alla radio passano gli 883, Dylan Dog inaugura il decennio con Accadde domani e il cinema si riempie di vampiri. Non sono i primi: abbiamo già visto Nosferatu, ma è arrivato il momento di un film che possa finalmente usare i diritti del romanzo, e in maniera emblematica l’adattamento di Coppola si intitola proprio Dracula di Bram Stoker (1992). Un cast degno di nota per attori chiave di questo decennio horror, da Anthony Hopkins (Il silenzio degli innocenti, 1991) a Winona Ryder (Alien – La clonazione, 1997) e Keanu Reeves (L’avvocato del Diavolo, 1997). Due anni dopo esce Intervista col vampiro, tratto dai libri di Anne Rice, e due anni dopo ancora ecco spuntare Dal tramonto all’alba.

Stephen King continua a ispirare pellicole, da Misery non deve morire (1990, con una Kathy Bates in stato di grazia) alla miniserie It (1990), mentre tra un remake e l’altro John Carpenter sforna Il seme della follia (1994), che sì, è anche il titolo di un albo di Dylan Dog che tuttavia si discosta parecchio dal contenuto lovecraftiano del film. Sul finire del millennio spunta inoltre un particolare mockumentary found footage che sconvolge gli spettatori, perché presentato come il vero ultimo video girato da tre ragazzi scomparsi nel nulla, tanto che come strategia di marketing gli attori, che nel film hanno usato i loro veri nomi, si nascosero per qualche tempo mentre volantini riguardanti la loro sparizione circolavano per le strade e un sito raccontava di altre persone svanite nello stesso luogo. Stiamo parlando di The Blair Witch Project, pellicola del 1999 diretto da Daniel Myrick ed Eduardo Sànchez.

Il film che tuttavia ritengo rappresenti questi anni Novanta è Scream (1996) di Wes Craven. Siamo ancora nell’ambito dello slasher, ma con un prodotto che si pone come una riflessione metacinematografica sul genere. Un killer misterioso sta uccidendo gli adolescenti di Woodsboro, e la prima a morire è Casey Becker: come in Psyco, la presenza della nota Drew Barrymore serve soltanto ad attirare gli spettatori per destabilizzarli, stavolta, fin dalla prima scena. Craven mette in atto tutte le caratteristiche dello slasher: la protagonista vergine, la sua amica disinibita, il ragazzo buffone, un killer mascherato che si diverte con le sue vittime. Ed è proprio il “ragazzo buffone”, Randy, a rappresentare l’elemento metacinematografico: “Non conoscete le regole!” urla, prima di elencarle. Non bisogna fare sesso, ubriacarsi, drogarsi o dire “Torno subito”. E saranno Randy e sua nipote Mindy, nei film successivi, a enunciare le regole di sequel e requel. Scream ha rivoluzionato lo slasher che lo stesso Craven ha contribuito a creare.

2000s

Il nuovo millennio cambia tutto. Non si tratta solo del passaggio a una nuova era: l’11 settembre 2001 segna una svolta per l’Occidente, e lo fa anche per l’horror. Adesso il nemico sembra vicino e il pubblico ha bisogno di esorcizzare le proprie paure attraverso film in cui lo splatter è protagonista, in cui l’eroe di solito vince sul mostro, in cui il suo terrore assume un aspetto fisico. Abbiamo Saw (2004), di cui abbiamo parlato nello scorso episodio, e la Francia ci offre torture porn che difficilmente dimenticheremo (e che avranno spazio in un’altra puntata), mentre Eli Roth porta sulla scena Hostel (2005).

Il nuovo millennio si apre però anche con uno dei film sui fantasmi più bello mai creato, e recitato magistralmente da Nicole Kidman. È il 2001 e Alejandro Amenábar dà vita a The Others, storia di una donna che, in attesa che il marito torni dalla Seconda Guerra Mondiale, cresce i due figli in una villa isolata, resa ancor più cupa dall’assenza di luce; infatti, i bambini soffrono di una malattia che non permette loro di esporsi ai raggi del sole. Pare che non possano avere amici… a parte Victor, che sembrano vedere soltanto loro due.

Fantasmi e splatter per questo nuovo millennio, ma non solo: abbiamo i poltergeist di Paranormal Activity (2007), ma prima, nel 2002, succede qualcosa: Gore Verbinski porta in Occidente un incubo virale, sia per il contenuto stesso della pellicola, sia per come il film verrà conosciuto in tutto il mondo, generando la paura collettiva dello squillo di un telefono. “Sette giorni…”. Ebbene sì, parliamo di The Ring. Questa volta la protagonista è Naomi Watts, che al funerale della nipote scopre che lei non è stata la sola a morire una settimana dopo aver visto una strana videocassetta; la donna comincerà a indagare, aiutata dal padre di suo figlio, e verrà a conoscenza della misteriosa figura di Samara Morgan. La scena della bambina che esce dal televisore diventa essa stessa virale e sarà parodiata da un numero sempre maggiore di film e serie televisive.

Non ho scelto The Ring per il suo successo, ma perché ha aperto le porte al cinema orientale, che sebbene fosse già noto a molti adesso diventa appetibile per il grande pubblico, e ciò lo dimostra la lunga serie di remake statunitensi. Si tratta infatti dell’adattamento di un film giapponese, Ringu (1998), il cui regista Hideo Nakata dirigerà anche il sequel americano The Ring 2 (2005), ed è un adattamento molto particolare. Pensiamo a The Eye (originale cinese del 2002 e remake del 2008) o a Shutter (capolavoro thailandese del 2004 e remake del 2008): la storia rimane pressoché la stessa, grazie anche ad alcuni espedienti narrativi (Shutter del 2008 è ambientato a Tokyo), mentre Ringu e The Ring sono quasi completamente diversi. Se il secondo è un thriller soprannaturale, il primo incarna appieno la cultura orientale (in questo caso giapponese), giocando sulla figura dello yurei e delle leggende a esso legate. È, appunto, profondamente connesso alla cultura di partenza.

Qualcosa di simile avviene anche con Dark Water. L’originale giapponese, diretto ancora una volta da Hideo Nakata partendo da un racconto di Koji Suzuki come per Ringu, non cerca un colpevole per ciò che accade alla bambina fantasma; il remake del 2005 ne ha invece bisogno, perché il cinema occidentale ci ha abituati alla ricerca del colpevole.

Altre pellicole degne di nota sono Ju-on (2002) e The Grudge (2004), entrambe le versioni dirette dal giapponese Takashi Shimizu, e Two Sisters (2003) del coreano Kim Ji-woon e The Uninvited (2009); in questo secondo caso, la pellicola cambia completamente, e consiglio prima la visione del remake, perché il plot twist di Two Sisters non sarà proprio quello che vi aspetterete.

2010s

Siamo giunti quasi alla fine ed è difficile sguazzare tra la miriade di film prodotti in questo periodo. Mi limiterò a citarne alcuni che ritengo degni di nota, ma ciò non implica che ignori altri capolavori; semplicemente, credo che i seguenti rappresentino bene il secondo decennio del XXI secolo.

Abbiamo i reboot, i remake e i requel: ne abbiamo tantissimi, e so che ne avete già una manciata in mente. Da cosa sono caratterizzati? Ritorno delle scream queens e analisi delle origini del cattivo, in primo luogo. Abbiamo però anche una categoria interessante, che può rientrare nei mockumentary, e ne è un esempio Unfriended (2014): il film si svolge interamente sullo schermo di un computer, e tramite una conversazione di gruppo su Skype possiamo osservare i misteriosi omicidi.

Un altro modo di osservare macabri assassinii è attraverso dei filmati. In Sinister (2012), considerato il film più spaventoso di sempre (per via dei jumpscare, ma questo non mi sembra un metro valido), Ethan Hawke interpretata uno scrittore di true crime in crisi; il suo piano per tornare sulla cresta dell’onda è trasferirsi nella casa in cui è avvenuta una strage e la sparizione dell’unica bambina sopravvissuta, e indagare. Ovviamente non lo ha detto alla moglie. La vicenda sembra prendere la deriva di Shining, con un protagonista ossessionato e sempre più dedito all’alcol… ma ve ne consiglio la visione per scoprire ogni dettaglio e colpo di scena.

L’anno seguente James Wan dà il via a una serie cinematografica non più incentrata su un serial killer, bensì su coloro che indagano fatti paranormali: Ed e Lorraine Warren. The Conjuring è il primo film di una fortunata saga che presenta qualche scivolone, ma anche due primi capitoli e, nel caso di Annabelle, un sequel davvero degni di nota – e a mio parere più spaventosi di Sinister.

Se da una parte gli horror si impegnano a fare paura, dall’altra vogliono prendersi in giro, e lo fa magnificamente Quella casa nel bosco (2012). Un gruppo di ragazzi va in una baita per passare il weekend; durante il viaggio incontrano uno strano benzinaio, e giunti nella casa si ritrovano a curiosare in cantina. Vi ricorda qualcosa? Concentriamoci però su una storyline parallela: all’interno di alcuni uffici, gli impiegati sono occupati ad attendere il risultato di una scommessa. Non è una pausa: stanno lavorando, ma dilettandosi anche a scoprire con cosa avranno a che fare. Sarà il Necronomicon? Sarà un carillon maledetto? O forse, finalmente, un tritone? Mi fermo qua, consigliandovi anche la visione di questa perla.

Reboot, mockumentary, jumpscare, parodie… Quale sarà il prossimo filone? Proprio quello da cui estrarrò gli ultimi due film, che come annunciato a inizio video sono profondamente legati. Si tratta della nascita di nuovi registi che portano sul grande schermo veri e propri film d’autore; registi dunque riconoscibili per le loro firme, come Mike Flanagan che riesce con Ouija – L’origine del male (2016) a farci riprendere da un primo capitolo tremendo, ma anche impegnati ad analizzare temi profondi e delicati, come fa Jennifer Kent in Babadook (2014), trasformando la depressione in un mostro vero e proprio.

I registi che si distinguono maggiormente in questi anni sono Robert Eggers, Jordan Peel e Ari Aster.

Eggers gioca sull’illusione, sull’incapacità del protagonista e dello spettatore di comprendere cosa sia realmente accaduto. In The VVitch (2019), il personaggio di Anya Taylor-Joy è davvero una strega? E in The Lighthouse (2019) è stato l’isolamento a fare impazzire i due guardiani del faro o Robert Pattinson nascondeva già qualcosa? È però la fotografia di Jarin Blaschke a caratterizzare le due pellicole, rendendo la visione ancora più onirica.

Il tema del razzismo è stato già analizzato nell’horror, ma Jordan Peele lo fa in una maniera differente, riflettendo anche sulla sparizione passata in sordina di diversi afroamericani e sulla schiavitù. Aggiungere altro per Get out (2017) sarebbe troppo spoiler, mentre posso dirvi che la famiglia protagonista di Us (2019) sarà solo una di quelle che si ritrova a scappare da doppelganger, ma c’è un motivo se la macchina da presa si sia interessata proprio a loro.

E arriviamo ad Ari Aster. Anche lui in questo decennio è all’esordio come regista, e anche lui ha prodotto nel periodo citato due pellicole, Hereditary (2018) e Midsommar (2019). Anche lui ha assunto un direttore della fotografia alle prime armi, Pawel Pogorzelski (ha iniziato a lavorare per Aster nel 2011), e anche lui ha portato al successo una giovane attrice, Florence Pugh, ma non è per questo che ho scelto i suoi film. L’ho fatto per le profonde somiglianze di temi tra due film profondamente diversi per trama e aspetto.

Sia Hereditary che Midsommar, infatti, riflettono sul tema della famiglia e del lutto. Si aprono con una prima perdita, che nel caso di Hereditary sarà solo un preambolo di qualcosa di orribile che avverrà in seguito (orribile per l’evento in sé e per la reazione dei familiari), e si sviluppano sulle ripercussioni psicologiche nei protagonisti. Hereditary è girato perlopiù all’interno di una casa, e c’è anche un modellino, presente in una stanza, a ricordarne l’importanza, mentre Midsommar si svolge non solo all’aperto, ma in Svezia, lontano dall’America in cui la protagonista Dani ha subito il lutto; se il primo film gioca sulle ombre, il secondo si appropria della luce, essendo ambientato nell’estate svedese priva di notte; se Hereditary è un horror soprannaturale che si basa sulla demonologia ebraico-cristiana, Midsommar rimane ancorato alla realtà nonostante le sostanze allucinogene prese da Dani e dai suoi amici, ed è profondamente legato ai riti pagani del Solstizio d’Estate. Ed entrambi i film presentano lo stesso, eppure diverso, finale.

Sara Carucci