Buonasera e benvenuti,
Cultisti, Indagatori dell’Incubo,
Creepers e tutti voi amanti del macabro!
Voglio proporvi
dieci film rappresentativi di un secolo di cinema, dagli anni Venti del
Novecento
al 2019. Nessuna classifica, meglio procedere in ordine cronologico.
Per ogni
decennio vi citerò film e sottogenere horror di quegli anni,
ma alla fine
sceglierò un solo film… con una sola eccezione,
dal momento che si tratta di
due opere che ritengo fortemente legate tra loro.
Partiamo!
1920s
Quando e
dove nasce l’horror? Non in Germania, e non nel XX
secolo. Il primo cortometraggio horror, infatti, è opera di
George Méliès, Le
manoir du diable, prodotto
nel 1896. Allora perché qualcuno avrà pensato
alla Germania? Nel 1920, esce un titolo che credo abbiate sentito
nominare: Il
gabinetto del dottor Caligari, di
Robert Wiene. Nei due decenni tra
le opere citate sono usciti altri lungo e cortometraggi degni di nota,
ma le
atmosfere del Dottor
Caligari sono una
novità, oltre che simbolo del cinema
espressionista tedesco. Ricordate le “geometrie non
euclidee” di Lovecraft?
Eccole qui in quegli stessi anni: giochi di luce e ombra, bianco e
nero, una
differenza netta tra buono e cattivo con l’uso di scenografie
disseminate di
diagonali, angoli, stanze impossibili.
Ma non
è di questo film che voglio parlarvi, e nemmeno di un
altro film muto di cui, stavolta, sono certissima abbiate udito almeno
il titolo: Nosferatu,
di Friedrich Wilhelm Murnau del 1922. Tuttavia, il caro Nosferatu
rappresenta un cult tale da non poter andare avanti senza nominarlo.
Chi ha
visionato questa pellicola certamente avrà notato le
somiglianze con il romanzo
di Bram Stoker, ma c’è un motivo perché
lì avevamo Dracula e qui il Conte
Orlok: diritti d’autore. La storia dunque è
pressoché la medesima, a eccezione
di alcune piccole differenze (tanto che gli eredi di Stoker non la
presero
comunque bene), perciò sorvolerò sulla trama per
concentrarmi su un particolare
che accomuna i due film citati: la caratterizzazione, a livello visivo,
del
“mostro”, che si tratti di Nosferatu o di Cesare.
Mentre il sonnambulo di Wiene
è ricordato per le nere occhiaie sopra il trucco
pallidissimo del viso (e in
seguito lo stesso attore, Conrad Veidt, verrà ricordato
anche per il
sorriso de L’uomo
che ride,
ispirazione per Joker), Max Schreck subisce
un cambiamento radicale, venendo tuttora ricordato per la testa calva e
bitorzoluta, le orecchie appuntite e due canini che hanno molto da
invidiare
alla versione di Gary Oldman.
Arriviamo però finalmente al film che ho scelto per due
motivi. Uno ve lo svelerò subito: l’ho visto in un
teatro
con la musica dal vivo. Qualcosa di simile è avvenuto anche
per Nosferatu,
ma in un ambiente più informale, mentre la
solennità dell’altra visione mi ha
restituito la sensazione di essere tornata indietro di cento anni. Sto
parlando
de Il Fantasma dell’Opera, lungometraggio
muto del 1925 diretto da
Rupert Julian e tratto dal romanzo di Gaston Leroux. Dimentichiamo
ancora una
volta la trama e il fatto che nessun lampadario ci sia caduto addosso
in teatro
(un disastro a livello architettonico e umano, ma volete mettere?), e
parliamo
invece di lui, Lon Chaney. Il suo soprannome?
“L’uomo dalle mille
facce”. Altro che Disney: Chaney nel ruolo di Quasimodo, nel
1923, doveva
essere veramente come nella mente di Hugo, ma è quando
Christine toglie la
maschera al Fantasma rivelando il vero volto di Erik che possiamo
comprendere
il suo sgomento, la paura, il desiderio di fuggire via. Non serve la
voce, non
serve una musica da jumpscare: basta il trucco sul
viso, che Chaney ideò
e si mise da solo.
C’è
però un secondo motivo per cui ho scelto questo film, e
riguarda un filone che avrà molta fortuna a partire, in
realtà, dal decennio
successivo, e di cui quindi vi parlerò… adesso!
1930s
L’Universal
Cinematic Monsters nasce con Lon Chaney, letteralmente:
i primi due film del franchise sono Il gobbo
di Notre Dame e Il
Fantasma dell’Opera; eppure,
è più il make up dell’attore a
inserirli nel
genere horror rispetto ai film. In ogni caso, concentriamoci un secondo
su
questo “universo” per affermare una
verità incontestabile: il primo franchise
cinematografico della storia è rappresentato
dall’horror, un genere che ancora
oggi molti definiscono di serie B. I mostri presenti tra gli anni Venti
e Cinquanta
(tornati poi in auge con diversi tentativi di remake contemporanei
più o meno
riusciti) sono, oltre ai già citati Quasimodo ed Erik,
Dracula, la creatura di
Frankenstein e la di lui moglie, il Mostro della Laguna Nera, la
Mummia, l’Uomo
Invisibile e l’Uomo Lupo – più alcune
“comparse” che non riscuoteranno il
successo dei predecessori.
Ci sono poi altri
“mostri”. Nello specifico, ciò che un
tempo erano definiti come tali, ed effettivamente Quasimodo potrebbe
rientrare
proprio in quest’ultima categoria: non creature
soprannaturali con poteri
incontrastabili, bensì freaks. Andiamo quindi a parlare di Freaks,
film
del 1932 per la regia di Tod Browning. Freaks è
un film anomalo, in
particolar modo per gli spettatori del tempo: non venne ben accolto,
anche la
critica lo stroncò, e tutto perché
portò sullo schermo coloro che, all’epoca,
venivano definiti “fenomeni da baraccone”. Diamo
una breve occhiata alla trama,
ispirata a Spurs, romanzo di Tod Robbins. Siamo
all’interno di un circo,
di cui fanno parte sia le figure ancora oggi presenti (come acrobati e
pagliacci), sia coloro che attraevano pubblico esclusivamente per
ciò che erano
definite “mostruosità”. Per
rappresentare le gemelle siamesi, la donna barbuta
e “l’uomo torso” furono scelti attori che
incarnavano tali caratteristiche,
tanto da essere accreditati come “se stessi”.
Questo fu un grosso esempio di
progresso che in seguito, nel cinema, non si vedrà per
parecchio tempo. Ad ogni
modo, la pellicola si sviluppa in un’oretta intorno alla
figura di Hans, che
abbandona la fidanzata Frida, affetta come lui da nanismo, per la bella
acrobata Cleopatra, in realtà interessata soltanto ai suoi
soldi.
Cosa c’è
qui di “horror”? C’è prima di
tutto il concetto di
“freak” nello stesso periodo in cui nasceva
l’Universal Cinematic Monsters, ma
c’è anche il finale – in una versione in
parte censurato – che porta un
lieto fine per Hans e al contempo la “punizione”
per Cleopatra. Una punizione
che, insieme ad altri elementi, verrà ripresa da American
Horror Story:
Freak Show, una delle stagioni più riuscite della
serie di Ryan Murphy e
Brad Falchuck. Non solo: gli appassionati di Dylan Dog come me
ricorderanno,
sebbene per trame differenti, le tematiche del capolavoro di Johnny
Freak
(Marcheselli, Sclavi e Venturi) e de Il cimitero dei freaks
(Barbato e
Mari).
1940s
Conoscete il Codice Hays? Se
avete studiato cinema, la
risposta è: sì, senza ombra di dubbio. E questo
perché ha interessato ogni
genere cinematografico. In parole povere, Hollywood non aveva fatto in
tempo a
nascere che già imponeva dei limiti: niente
nudità, niente affronti alla
religione, niente di tutto ciò che potesse (cito Wikipedia
perché trovo la
definizione calzante) “abbassare gli standard morali degli
spettatori”.
Nell’America del post Proibizionismo, potevamo aspettarci
altro? Va dunque da
sé che gli horror, per loro natura, andavano contro una
serie di precetti base
del Codice Hays, tra i quali: la messa in scena di omicidi e altre
azioni
violente; il linguaggio offensivo; la vita sessuale dei personaggi
(anche la
sola rappresentazione esplicita dell’adulterio). E via
dicendo. Cosa si può
mettere in scena, quindi, se sangue e violenza sono vietate?
Per
fortuna, il genere horror può vantare tante situazioni
“spaventose”, basti pensare alla componente
psicologica. L’horror,
soprattutto in questi primi decenni, si accosta molto al thriller, a
volte
aggiungendo una caratteristica soprannaturale, a volte no, ma in ogni
caso
provocando nello spettatore ansie e paranoie: cosa stiamo vedendo? ce
lo stiamo
solo immaginando?
Un esempio è dato
dal termine, ora ampliamente in uso, di
“gaslight”, una sorta di manipolazione mentale che
viene esplicata dall’omonimo
film (in Italia noto come Angoscia) del 1944,
preceduto da un’opera
teatrale e da un ulteriore suo adattamento. Stiamo veramente vedendo la
realtà
o è solo una visione, una falsa percezione causata da droga,
malattia mentale o
altre cause? Con questa breve introduzione, vi sarà
già venuta in mente una
serie di pellicole recenti, ma vorrei indirizzarvi verso un film del
1942
diretto da Jacques Tourneur: Il bacio della pantera.
Qui non abbiamo
episodi di gaslighting, ma la nascita nello
spettatore di un dubbio: la
protagonista soffre di una forma di delirio o c’è
del soprannaturale di mezzo?
Ve lo spiego meglio: la serba Irena è convinta di discendere
da una popolazione
che si era unita con bestie dall’aspetto felino, e dunque di
non potersi
lasciare andare alle emozioni per timore di trasformarsi essa stessa in
una
“bestia”. Nel corso del film si susseguono degli
eventi che potrebbero o no
confermare la sua tesi, e a dirla tutta al termine della visione non si
è
ancora certi sulla veridicità dei timori di Irena.
Sì, una data scena
sembrerebbe dare adito a una delle due versioni, ma che la forma
bestiale sia
solo una metafora? Ecco come aggirare il Codice Hays alla perfezione.
Vi
indirizzo ancora una volta verso Dylan
Dog: Il sogno
della tigre, di
Mignacco e Piccatto.
1950s
Cosa temeva l’America
negli anni Cinquanta? Il diverso, o
ancora meglio ciò che avrebbe potuto cambiare
l’ordine delle cose. In altre parole: il
comunismo. Alcuni film girati in questo periodo sono stati
interpretati
partendo da tale presupposto, nonostante i loro ideatori sostenessero
che no,
non c’entrava niente il comunismo. È il caso di
Don Siegel, che ha
dovuto giustificarsi in merito a L’invasione degli
ultracorpi del 1956.
Pensiamo però anche a La cosa da un altro mondo
(1951, più nota per il
remake di John Carpenter del 1982): qualcosa è in agguato
nell’ombra, qualcosa
pronto a prendere il nostro aspetto e a sostituirci per proliferare.
Comunismo o meno, è
ovvio che siamo alle soglie dell’horror
fantascientifico, ed entrambi i film lo introducono alla perfezione,
facendo chiedere
allo spettatore sia quale sia il vero “io”, la
forma originale, sia se esso
possa sopravvivere al termine della pellicola – e, in senso
più ampio, se la
Terra stessa riuscirà a fronteggiare la minaccia aliena.
Però non
è di questo che voglio parlarvi. Lasciamo perdere
la fantascienza e concentriamoci su un attore, come per gli esempi del
cinema
muto. Concentriamoci su chi ha fatto la storia dell’horror.
Concentriamoci su
Vincent Price.
Ho scoperto questo attore da
poco tempo e ho immediatamente
imparato ad amarlo. Ha un’espressività e una
capacità attoriale che coinvolgono
lo spettatore pur con un solo cameo – la sua ultima
apparizione, per
intenderci, è stata quella del creatore in Edward
Mani di Forbici, e il
corto Vincent di Tim Burton è ispirato
proprio a lui.
Chi è Vincent Price?
Ve lo racconto in una manciata di film:
Vertigine (1944), Il mostro che uccide
(1959), La maschera di
cera (1953) e nei decenni successivi I racconti del
terrore (1962), Il
grande inquisitore (1968) e una serie di film diretti da
Roger Corman e
ispirati ai racconti di Edgar Allan Poe (I vivi e i morti,
Il pozzo e
il pendolo, La maschera della Morte Rossa).
Se non
avete visto questi film, vi basti sapere che in Shock
(1946) interpretava uno psichiatra che aveva in cura una donna finita
sotto
shock proprio perché, per puro caso, aveva assistito al suo
uxoricidio.
Ora vi parlo però di
un film sul finire del decennio, nello
specifico del 1959, diretto da William Castle. La casa dei
fantasmi,
proprio come Il bacio della pantera, pone un dubbio
allo spettatore: ci
sono i fantasmi? La villa è maledetta? Partiamo
dall’inizio, agganciandoci
inoltre alla precedente top horror. Vincent Price interpreta un
eccentrico
riccone che, insieme alla moglie, invita alcune persone sconosciute (ma
bisognose di denaro, di notorietà o risposte) a passare la
notte in una
magione; chi rimarrà fino all’alba
vincerà diecimila dollari. Inutile
specificare che, subito dopo mezzanotte, inizieranno gli omicidi. Un
gigantesco
encomio va a Carol Ohmart, interprete della “signora
Price”, che con il suo
coprotagonista ha un’intesa pazzesca.
Cosa
aggiungere senza fare spoiler? Che dovete guardare
almeno un film con Vincent Price nella vita.
1960s
La seconda
metà del secolo è la culla d’oro del
genere
horror, che possiamo gustare in qualsiasi salsa – a partire
da un thriller che
presenta la scena
d’omicidio più famosa del cinema. Una sola parola:
doccia.
Stiamo parlando ovviamente di Psyco di Alfred
Hitchcock, che
apre il decennio con un plot twist del tutto inaspettato, ossia la
morte
della protagonista a metà film – non tanto per il ruolo del
personaggio ucciso,
quanto per la notorietà della sua attrice. La fama di Janet
Leigh,
infatti, era parte della presenza del pubblico in sala, e togliere di
mezzo il
suo personaggio lo avrà destabilizzato (gli spettatori lo
avrebbero comunque
saputo, se avessero letto l’omonimo libro di Robert Bloch, ma
Hitchcock aveva
già provveduto a comprarne tutte le copie per evitare
spoiler). L’elemento
horror, ad ogni modo, è rappresentato dal colpo di scena del
finale – che già
conoscerete, ma rispetto la politica “no spoiler”
di Hitchcock e almeno questo
lo tengo per me. Psyco è
un cult, eppure all’epoca non solo non fu
debitamente apprezzato, ma la stessa Paramount ebbe grossi dubbi in
merito al successo
della pellicola.
Il proliferare di serial killer
negli Stati Uniti darà il
via ad altri horror dedicati a tali figure, però non saranno
gli unici mostri
di questi anni. Pensiamo, infatti, al film per eccellenza sugli zombie:
La
notte dei morti viventi di George Romero del 1968.
Sì, ovviamente
esiste la
versione di Dylan Dog,
che è addirittura il numero 1 dell’ottobre 1986,
scritto
da Tiziano Sclavi, illustrato da Angelo Stano e uscito con il titolo de
L’alba
dei morti viventi. Siamo in Pennsylvania e il film inizia in
media res:
mentre ne L’invasione degli ultracorpi la
citata invasione era già in
corso, ma il protagonista e lo spettatore avevano bisogno di diverse
scene per
comprenderlo, la povera Barbra e l’ancor più
povero fratello Johnny si
ritrovano nel giro di qualche minuto ad affrontare un morto vivente in
un
cimitero.
Altre
versioni soprannaturali dell’horror conquistano il
cinema in quegli anni, dall’Anticristo di Rosemary’s
Baby
(1968) ai
fantasmi che avrebbero in seguito ispirato le due stagioni di The
Haunting
di Mike Flanagan, Gli
invasati (1963,
dal romanzo The
Haunting of
Hill House di
Shirley Jackson) e Suspense (1961,
dal racconto Il
giro di vite di Henry
James).
Il film
che ho scelto per questo decennio, però, è meno
famoso dei precedenti e noto soprattutto per il remake che ne
farà John Carpenter nel
1995: sto parlando de Il
villaggio dei dannati del 1960
per la regia di
Wolf Rilla. Se non la vita dei serial killer, abbiamo visto che sono i
romanzi
a ispirare i registi, e così è anche per questo
film, tratto da I figli
dell’invasione di John
Wyndham. Perché ho scelto proprio questo? Per
l’inquietudine trasmessa, per l’uncanny. Il
villaggio inglese di
Midwich un giorno si addormenta, e tutti coloro che provano a entrarvi
subiscono la stessa sorte, eppure la pellicola non prosegue su questo
elemento;
infatti, dopo alcune ore gli abitanti si svegliano senza aver subito
evidenti
cambiamenti… evidenti, appunto, perché entro
qualche settimana tutte le donne
fertili scopriranno di essere incinte, perfino le ragazze vergini. La
storia
riprende anni dopo, seguendo le vicende di questi strani bambini dai
capelli
bianchi e gli occhi luminosi, apparentemente privi di emozioni, che a
differenza
di altre parti del mondo, per
paura di ciò
che avrebbero potuto rappresentare, non sono
stati uccisi alla nascita . Di più non vi racconto,
ma… bambini
inquietanti. Serve davvero aggiungere altro?
1970s
Eccolo qua, il decennio
più complicato, gli anni dei film
cult, della nascita dello slasher, del successo di Dario Argento. Come
si fa a
scegliere? Si può, e la scelta non può che essere
il film horror per
eccellenza, quello di cui avevo sentito parlare già da
bambina, vent’anni dopo
la sua uscita nei cinema. Andiamo con ordine, però, e
teniamolo per ultimo.
Finora ci siamo concentrati su
pellicole statunitensi, con
rare eccezioni, soprattutto perché da lì
provengono e proverranno i film più
noti, ma il cinema horror ha proliferato in ogni parte del mondo, e a
fare
scuola sono stati anche i maestri italiani. Al punto che, per alcuni
critici, è
da ricercare nel nostro Paese la genesi dello slasher: siamo nel 1971 e
Mario
Bava produce Reazione a catena, ma non è
stato questo il film più
riuscito, a mio parere. Negli anni Sessanta, infatti, Bava aveva
realizzato La
maschera del demonio e I tre volti della paura
(quest’ultimo con la
partecipazione di Boris Karloff, il mostro di Frankenstein del 1931), e
onestamente propenderei per considerare piuttosto Sei donne
per l’assassino (1964)
il vero padre dello slasher, sebbene siamo nel pieno del giallo
all’italiana.
Gli anni
Settanta sono invece dominio di Luigi Fulci e di
Dario Argento: mentre il primo si è fin da subito
concentrato sullo shock
visivo, il secondo ha da sempre oscillato tra mistero e sangue,
indagini e
soprannaturale. Sono due i film cardine di Argento: Profondo
Rosso
(1975) e Suspiria (1977).
Per quanto
riguarda gli Stati Uniti, riprendiamo il discorso
dello slasher, il genere cinematografico più femminista
della storia. Perché?
Basti pensare alle scream
queens, le
sopravvissute (a volte per un
intero franchise), le donne che riescono a combattere la loro nemesi
maschile
senza l’aiuto di un uomo; all’inizio sono vergini,
perché devono rispondere
alla “moralità” dell’epoca, ma
pian piano conquistano altre libertà – in altre
parole, avere un rapporto sessuale non le rende più
“vittime promiscue”. Torneremo
in futuro su questo tema, per ora basti citare sì le
sopravvissute di Non
aprite quella porta (1974) e Halloween (1978), ma
anche Ripley di Alien
(1979),
e cosa dire di Carrie (1976)? Ed è proprio Carrie che,
esulando dallo slasher, ci conduce verso altre donne protagoniste degli
anni
Settanta, e verso il film che ho scelto per questo decennio.
Lo
conoscete: L’esorcista
(1973),
per la regia di
William Friedkin. Perfino chi non lo ha visto ne ha sentito parlare,
e probabilmente ha presente il volto deturpato di Linda Blair
– e anche il vero
vomito che colpì il malcapitato prete. Ci sono tutti gli
elementi del cinema
horror per come lo intendiamo nell’immaginario collettivo:
una tavola Ouija,
una possessione, la statuina di un demone, una bambina spaventosa, una
madre
spaventata, un esorcismo. C’è la vita di madre e
figlia prima e durante il
disastro, e c’è la lenta corruzione del corpo di
Regan. C’è perfino il
contrasto tra l’ateismo di Chris MacNeil e la fede dei due
preti.
1980s
Prosegue l’ondata di
franchise slasher, che cominciano a
presentare piccole differenze tra loro. Venerdì 13
(1980, dodici film)
narra le vicende di un gruppo di responsabili di Camp Crystal Lake che
si
trovano a perire in modi brutali come vendetta per un
incidente avvenuto ventitré anni prima al piccolo Jason
Voorhees.
Perché il ragazzino affogò? Perché
coloro che avrebbero dovuto sorvegliarlo si
stavano “divertendo”: il sesso fa male, per tornare
alla pletora di scream queens
vergini di cui sopra.
Wes Craven darà al
suo slasher una caratteristica nuova,
ossia la componente soprannaturale. Parliamo di Nightmare
(1984, nove
film), il cui villain è l’infanticida Freddy
Kruger, deciso a proseguire,
attraverso gli incubi, la conta delle sue vittime. Anche Hellraiser
(1987, undici film) potrebbe essere considerato uno slasher; quel che
è certo è
che la saga di Clive Barker non può evitare di essere citata
tra i cult
dell’orrore.
Gli anni
Ottanta sono anche gli anni delle commedie horror e
delle parodie, film in cui l’elemento grottesco viene portato
all’esagerazione.
Sono gli anni de La casa (1981,
cinque film e una serie televisiva) di
Sam Raimi, con un inedito sopravvissuto maschile: Ash Williams,
interpretato da
Bruce Campbell.
Parliamo
poi di un film che esula da slasher e commedie, e che
non segue il corso dell’horror di quei decenni,
bensì il metodo di lavoro del
suo regista, noto per adattare romanzi di generi diversi in modo che la
sua
firma risulti più che evidente. Siamo arrivati a Stanley
Kubrick e alla sua versione di
Shining
(1980),
che si discosta parecchio dall’omonimo libro di Stephen
King, tanto che allo scrittore il film non è mai andato a
genio. Shining
narra dell’inverno trascorso dalla famiglia Torrance nel
disabitato Overlook
Hotel in qualità di guardiani; Jack (Jack Nicholson)
vorrebbe approfittarne per
scrivere il suo libro, ma non sarà così facile.
L’isolamento porta nervosismo e
ansia, e perfino lo spettatore, grazie all’uso della
steadycam,
riesce a provare tali sensazioni, aggravate dalla presenza di due
innocue
gemelline vestite di azzurro che sarebbero diventate l’incubo
di molti bambini
(il mio sicuramente); a dirla tutta, l’esaurimento che
vediamo nel film è stato
parte della sua realizzazione, dal momento che Kubrick anelava la
perfezione,
portando gli attori a giornate ininterrotte di lavoro sulla stessa
scena e la
povera Shirley Duvall al limite della pazzia. Una curiosità
poco nota: in Harry
Potter e il Calice di Fuoco (2005),
il labirinto è stato cambiato rispetto
al romanzo, in modo che fosse simile a quello del finale di Shining.
1990s
Ah, gli anni Novanta: alla
radio passano gli 883, Dylan
Dog
inaugura il decennio con Accadde domani e il cinema
si riempie di
vampiri. Non sono i primi: abbiamo già visto Nosferatu,
ma è arrivato il
momento di un film che possa finalmente usare i diritti del romanzo, e
in
maniera emblematica l’adattamento di Coppola si intitola
proprio Dracula di
Bram Stoker (1992). Un cast degno di nota per attori chiave
di questo
decennio horror, da Anthony Hopkins (Il silenzio degli
innocenti, 1991)
a Winona Ryder (Alien – La clonazione,
1997) e Keanu Reeves (L’avvocato
del Diavolo, 1997). Due anni dopo esce Intervista
col vampiro,
tratto dai libri di Anne Rice, e due anni dopo ancora ecco spuntare Dal
tramonto all’alba.
Stephen King continua a ispirare pellicole, da Misery non deve morire (1990, con una Kathy Bates in stato di grazia) alla miniserie It (1990), mentre tra un remake e l’altro John Carpenter sforna Il seme della follia (1994), che sì, è anche il titolo di un albo di Dylan Dog che tuttavia si discosta parecchio dal contenuto lovecraftiano del film. Sul finire del millennio spunta inoltre un particolare mockumentary found footage che sconvolge gli spettatori, perché presentato come il vero ultimo video girato da tre ragazzi scomparsi nel nulla, tanto che come strategia di marketing gli attori, che nel film hanno usato i loro veri nomi, si nascosero per qualche tempo mentre volantini riguardanti la loro sparizione circolavano per le strade e un sito raccontava di altre persone svanite nello stesso luogo. Stiamo parlando di The Blair Witch Project, pellicola del 1999 diretto da Daniel Myrick ed Eduardo Sànchez.
Il film
che tuttavia ritengo rappresenti questi anni Novanta
è Scream (1996) di
Wes Craven. Siamo ancora nell’ambito dello slasher,
ma con un prodotto che si pone come una riflessione metacinematografica
sul
genere. Un killer misterioso sta uccidendo gli adolescenti di
Woodsboro, e la
prima a morire è Casey Becker: come in Psyco, la
presenza della nota
Drew Barrymore serve soltanto ad attirare gli spettatori per
destabilizzarli,
stavolta, fin dalla prima scena. Craven mette in atto tutte le
caratteristiche
dello slasher: la protagonista vergine, la sua amica disinibita, il
ragazzo
buffone, un killer mascherato che si diverte con le sue vittime. Ed
è proprio
il “ragazzo buffone”, Randy, a rappresentare
l’elemento metacinematografico:
“Non conoscete le regole!” urla, prima di
elencarle. Non bisogna fare sesso,
ubriacarsi, drogarsi o dire “Torno subito”. E
saranno Randy e sua nipote Mindy,
nei film successivi, a enunciare le regole di sequel e requel. Scream ha
rivoluzionato lo slasher che lo stesso Craven ha contribuito a creare.
2000s
Il nuovo millennio cambia
tutto. Non si tratta solo del
passaggio a una nuova era: l’11 settembre 2001 segna una
svolta per l’Occidente, e lo
fa anche per l’horror. Adesso il nemico sembra vicino e il
pubblico ha bisogno
di esorcizzare le proprie paure attraverso film in cui lo splatter
è
protagonista, in cui l’eroe di solito vince sul mostro, in
cui il suo terrore assume un
aspetto fisico. Abbiamo Saw (2004), di cui abbiamo
parlato nello scorso
episodio, e la Francia ci offre torture porn che
difficilmente dimenticheremo
(e che avranno spazio in un’altra puntata), mentre Eli Roth
porta sulla scena Hostel
(2005).
Il nuovo millennio si apre
però anche con uno dei film sui
fantasmi più bello mai creato, e recitato magistralmente da
Nicole Kidman. È il
2001 e Alejandro Amenábar dà vita a The
Others, storia di una donna che,
in attesa che il marito torni dalla Seconda Guerra Mondiale, cresce i
due figli
in una villa isolata, resa ancor più cupa
dall’assenza di luce; infatti, i
bambini soffrono di una malattia che non permette loro di esporsi ai
raggi del
sole. Pare che non possano avere amici… a parte Victor, che
sembrano vedere
soltanto loro due.
Fantasmi e
splatter per questo nuovo millennio, ma non solo:
abbiamo i poltergeist di Paranormal
Activity (2007),
ma prima, nel 2002,
succede qualcosa: Gore Verbinski porta in Occidente un incubo virale,
sia per
il contenuto stesso della pellicola, sia per come il film
verrà conosciuto in
tutto il mondo, generando la paura collettiva dello squillo di un
telefono.
“Sette giorni…”. Ebbene sì,
parliamo di The Ring. Questa
volta la
protagonista è Naomi Watts, che al funerale della nipote
scopre che lei non è
stata la sola a morire una settimana dopo aver visto una strana
videocassetta;
la donna comincerà a indagare, aiutata dal padre di suo
figlio, e verrà a
conoscenza della misteriosa figura di Samara Morgan. La scena della
bambina che
esce dal televisore diventa essa stessa virale e sarà
parodiata da un numero
sempre maggiore di film e serie televisive.
Non ho scelto The Ring
per il suo successo, ma perché
ha aperto le porte al cinema orientale, che sebbene fosse
già noto a molti
adesso diventa appetibile per il grande pubblico, e ciò lo
dimostra la lunga
serie di remake statunitensi. Si tratta infatti
dell’adattamento di un film
giapponese, Ringu (1998), il cui regista Hideo
Nakata dirigerà anche il
sequel americano The Ring 2 (2005), ed è
un adattamento molto
particolare. Pensiamo a The Eye (originale cinese
del 2002 e remake del
2008) o a Shutter (capolavoro thailandese del 2004
e remake del 2008):
la storia rimane pressoché la stessa, grazie anche ad alcuni
espedienti
narrativi (Shutter del 2008 è ambientato
a Tokyo), mentre Ringu e
The Ring sono quasi completamente diversi. Se il
secondo è un thriller
soprannaturale, il primo incarna appieno la cultura orientale (in
questo caso
giapponese), giocando sulla figura dello yurei e
delle leggende a esso
legate. È, appunto, profondamente connesso alla cultura di
partenza.
Qualcosa di simile avviene
anche con Dark Water.
L’originale giapponese, diretto ancora una volta da Hideo
Nakata partendo da un
racconto di Koji Suzuki come per Ringu, non cerca
un colpevole per ciò
che accade alla bambina fantasma; il remake del 2005 ne ha invece
bisogno,
perché il cinema occidentale ci ha abituati alla ricerca del
colpevole.
Altre
pellicole degne di nota sono Ju-on (2002) e The
Grudge (2004),
entrambe le versioni dirette dal giapponese Takashi Shimizu,
e Two
Sisters (2003)
del coreano Kim Ji-woon e The
Uninvited
(2009); in questo secondo caso, la pellicola cambia completamente, e
consiglio
prima la visione del remake, perché il plot twist di Two Sisters non
sarà proprio quello che vi aspetterete.
2010s
Siamo giunti quasi alla fine ed
è difficile sguazzare tra la
miriade di film prodotti in questo periodo. Mi limiterò a
citarne alcuni che
ritengo degni di nota, ma ciò non implica che ignori altri
capolavori;
semplicemente, credo che i seguenti rappresentino bene il secondo
decennio del
XXI secolo.
Abbiamo i
reboot, i remake e i requel: ne abbiamo
tantissimi, e so che ne avete già una manciata in mente. Da
cosa sono
caratterizzati? Ritorno delle scream
queens e analisi
delle origini del
cattivo, in primo luogo. Abbiamo però anche una categoria
interessante, che può
rientrare nei mockumentary, e ne è un esempio Unfriended (2014):
il film
si svolge interamente sullo schermo di un computer, e tramite una
conversazione
di gruppo su Skype possiamo osservare i misteriosi omicidi.
Un altro modo di osservare
macabri assassinii è attraverso
dei filmati. In Sinister (2012), considerato il
film più spaventoso di
sempre (per via dei jumpscare, ma questo non mi
sembra un metro valido),
Ethan Hawke interpretata uno scrittore di true crime
in crisi; il suo
piano per tornare sulla cresta dell’onda è
trasferirsi nella casa in cui è
avvenuta una strage e la sparizione dell’unica bambina
sopravvissuta, e
indagare. Ovviamente non lo ha detto alla moglie. La vicenda sembra
prendere la
deriva di Shining, con un protagonista ossessionato
e sempre più dedito
all’alcol… ma ve ne consiglio la visione per
scoprire ogni dettaglio e colpo di
scena.
L’anno
seguente James Wan dà il via a una serie
cinematografica non più incentrata su un serial killer,
bensì su coloro che
indagano fatti paranormali: Ed e Lorraine Warren. The
Conjuring
è il
primo film di una fortunata saga che presenta qualche scivolone, ma
anche due
primi capitoli e, nel caso di Annabelle, un
sequel davvero degni di nota
– e a mio parere più spaventosi di Sinister.
Se da una parte gli horror si
impegnano a fare paura,
dall’altra vogliono prendersi in giro, e lo fa magnificamente
Quella casa
nel bosco (2012). Un gruppo di ragazzi va in una baita per
passare il
weekend; durante il viaggio incontrano uno strano benzinaio, e giunti
nella
casa si ritrovano a curiosare in cantina. Vi ricorda qualcosa?
Concentriamoci
però su una storyline parallela: all’interno di
alcuni uffici, gli impiegati
sono occupati ad attendere il risultato di una scommessa. Non
è una pausa:
stanno lavorando, ma dilettandosi anche a scoprire con cosa avranno a
che fare.
Sarà il Necronomicon? Sarà un carillon maledetto?
O forse, finalmente, un
tritone? Mi fermo qua, consigliandovi anche la visione di
questa perla.
Reboot,
mockumentary, jumpscare,
parodie… Quale sarà
il prossimo filone? Proprio quello da cui estrarrò gli
ultimi due film, che
come annunciato a inizio video sono profondamente legati. Si tratta
della
nascita di nuovi registi che portano sul grande schermo veri e propri
film
d’autore; registi dunque riconoscibili per le loro firme,
come Mike Flanagan
che riesce con Ouija
– L’origine del male (2016) a
farci riprendere da
un primo capitolo tremendo, ma anche impegnati ad analizzare temi
profondi e
delicati, come fa Jennifer Kent in Babadook (2014),
trasformando la
depressione in un mostro vero e proprio.
I registi che si distinguono
maggiormente in questi anni
sono Robert Eggers, Jordan Peel e Ari Aster.
Eggers gioca
sull’illusione, sull’incapacità del
protagonista e dello spettatore di comprendere cosa sia realmente
accaduto. In The
VVitch (2019), il personaggio di Anya Taylor-Joy è
davvero una strega? E in
The Lighthouse (2019) è stato
l’isolamento a fare impazzire i due
guardiani del faro o Robert Pattinson nascondeva già
qualcosa? È però la
fotografia di Jarin Blaschke a caratterizzare le due
pellicole,
rendendo la visione ancora più onirica.
Il tema
del razzismo è stato già analizzato
nell’horror, ma
Jordan Peele lo fa in una maniera differente, riflettendo anche sulla
sparizione passata in sordina di diversi afroamericani e sulla
schiavitù.
Aggiungere altro per Get out (2017)
sarebbe troppo spoiler, mentre posso
dirvi che la famiglia protagonista di Us (2019)
sarà solo una di quelle
che si ritrova a scappare da doppelganger, ma c’è
un motivo se la macchina da presa si sia interessata proprio a
loro.
E
arriviamo ad Ari Aster. Anche lui in questo decennio è
all’esordio come regista, e anche lui ha prodotto nel periodo
citato due
pellicole, Hereditary
(2018)
e Midsommar
(2019).
Anche lui ha
assunto un direttore della fotografia alle prime armi, Pawel
Pogorzelski (ha
iniziato a lavorare per Aster nel 2011), e anche lui ha portato al
successo una
giovane attrice, Florence Pugh, ma non è per questo che ho
scelto i suoi film.
L’ho fatto per le profonde somiglianze di temi tra due film
profondamente
diversi per trama e aspetto.
Sia Hereditary che Midsommar, infatti,
riflettono sul tema della famiglia e del lutto. Si aprono con una prima
perdita, che nel caso di Hereditary
sarà solo un preambolo di qualcosa
di orribile che avverrà in seguito (orribile per
l’evento in sé e per la
reazione dei familiari), e si sviluppano sulle ripercussioni
psicologiche nei
protagonisti. Hereditary
è girato perlopiù all’interno di una
casa, e
c’è anche un modellino, presente in una stanza, a
ricordarne l’importanza,
mentre Midsommar si svolge
non solo all’aperto, ma in Svezia, lontano
dall’America in cui la protagonista Dani ha subito il lutto;
se il primo film
gioca sulle ombre, il secondo si appropria della luce, essendo
ambientato
nell’estate svedese priva di notte; se Hereditary
è un horror
soprannaturale che si basa sulla demonologia ebraico-cristiana, Midsommar rimane
ancorato alla realtà nonostante le sostanze allucinogene
prese da Dani e dai
suoi amici, ed è profondamente legato ai riti pagani del
Solstizio d’Estate. Ed
entrambi i film presentano lo stesso, eppure diverso, finale.